Il loro tenore di vita risultava ben al di sopra di quanto dichiarato al fisco. Automobili, fabbricati, appezzamenti di terreni, rapporti bancari e persino due associazioni sportive che proprio non combaciavano con gli esigui redditi dimostrabili dal punto di vista documentale. Proprietà direttamente o indirettamente riconducibili peraltro a due personaggi da qualche anno finiti sotto i riflettori della cronaca, due uomini indicati dalla magistratura antimafia come elementi di spicco della cosca bruzia Rango-Zingari. Loro sono Antonio Intrieri e il genero Domenico Mignolo, entrambi detenuti e già condannati in primo grado per associazione a delinquere di stampo ’ndranghetistico. Contestazioni e sentenze che hanno spinto il procuratore antimafia Nicola Gratteri, l’aggiunto Giovanni Bombardieri e il sostituto Camillo Falvo a spulciare tra i beni dei due presunti affiliati alla ’ndrina che faceva capo al boss Maurizio Rango, anche lui da qualche anno dietro le sbarre.
Il controllo patrimoniale esteso anche ai familiari di Intrieri e Mignolo è stato quindi affidato agli esperti detective della Guardia di finanza, militari agli ordini del comandante provinciale Marco Grazioli, che hanno così rintracciato all’incirca 5 milioni di euro tra beni mobili e immobili adesso finiti sotto sequestro. Complessivamente sono stati apposti i sigilli giudiziari su quattro fabbricati, due appezzamenti di terreno, otto automezzi, svariati conti correnti bancari, quattro quote di partecipazione ad altrettante compagini societarie riconducibili sempre a Intrieri e Mignolo, due associazioni sportive dilettantistiche nelle loro disponibilità. Un “tesoro” milionario per adesso congelato nell’attesa d’un successivo provvedimento di confisca.
Un colpo durissimo per suocero e genero, già alle prese con pesanti vicissitudini giudiziarie. Sia Intrieri che Mignolo sono stati del resto condannati a 14 anni di reclusione per associazione ’ndranghetistica. L’imprenditore Intrieri era già finito nei guai con la giustizia negli anni Ottanta e da tempo vantava - secondo gl’inquirenti - una discreta “rispettabilità” nel sottobosco criminale cosentino. Il giovane che s’è legato sentimentalmente a una delle sue figlie, poi, sulle spalle ha anche un’altra condanna a 18 anni per l’omicidio di Antonio Taranto, alias “squaletto”, ammazzato a pistolettate all’alba del 29 marzo di due anni fa tra le palazzine di via Popilia. I giudici di primo grado hanno affermato che Mignolo ha sparato da un balcone colpendo nel mucchio, in preda all’ira contro i membri del clan che durante una sua precedente detenzione non avevano provveduto a garantire lo “stipendio” ai suoi familiari. Colpi di pistola fatali per il giovane Taranto e che sono costati a Domenico Mignolo pure il carcere duro al regime del 41 bis.
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La notte della tragedia. Iniziata con le accalorate telefonate tra Antonio Intrieri e Domenico Mignolo, col primo che tentava di far ragionare il genero in preda a una furia contro i membri del clan che non avevano garantito lo “stipendio” ai suoi cari durante una precedente detenzione. Quelle chiamate erano intercettate e sono saltate fuori durante l’inchiesta sull’uccisione di Antonio Taranto. Intrieri, parlando pure con la figlia, appariva estremamente preoccupato per la rabbia del genero. Del resto, i problemi in una discoteca s’erano già trasformati in un violento alterco. Una lite che, secondo le regole non scritte delle ’ndrine, non poteva non avere conseguenze. Secondo i giudici di primo grado Mignolo non ha infatti ascoltato il suocero. E nelle ore successive, all’alba, s’è affacciato dal balcone sparando contro un gruppo di persone e colpendo a morte Antonio “squaletto” Taranto.
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