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Pentiti in fila per ricostruire gli anni degli agguati e delle bombe

Pentiti in fila per ricostruire gli anni degli agguati e delle bombe

A quei tempi Cosenza era una una città col cuore in gola, imprigionata dal terrore, avvolta dal silenzio. Con bombe, taniche di benzina, colpi di fucile e di pistola, roghi e minacce d’ogni genere i clan si davano battaglia per la droga, per il pizzo da incassare, per il potere da gestire. Bande contro bande, con assassini che vivevano e morivano alla giornata. Bastava poco, anche solo uno sguardo per essere ammazzati. Si sparava per strada, nei quartieri, dentro i locali. Le coppole si sentivano invincibili all’interno di un’area urbana ridotta a una casbah. Boss e mezzi boss decidevano sulla vita e la morte di chi gli stava intorno, di buoni e cattivi. La ’ndrangheta aveva trasformato questa terra in un campo di battaglia, una zona franca completamente fuori controllo. Cosenza era cosa loro, una specie di “buco nero”.

Uno scenario inquietante che oggi verrà rischiarato in Corte d’assise (presidente: Giovanni Garofalo) dai vecchi boss che si sono pentiti diventando negli anni decisivi per consentire allo Stato di riprendersi la città. Si tratta di Umile Arturi, Ferdinando, Giuseppe e Francesco Vitelli. Con loro anche l’ex collaboratore, Luigi Tripodi. Verranno interrogati dal pm antimafia Camillo Falvo che rappresenta la pubblica accusa nel processo su un duplice omicidio di quegli anni, la feroce esecuzione di due ragazzi esuberanti condannati a morte per essersi ribellati all’aristocrazia criminale. È stato un altro pentito, il più importante, l’ex capo dei capi della ’ndrangheta cosentina, Franco Pino, a svelare i retroscena della sentenza di morte pronunciata dai clan nel febbraio del 1986. Marcello Gigliotti e Francesco Lenti sarebbero stato uccisi per una rapina in casa di un uomo importante a Castrolibero. Gigliotti, in particolare, sarebbe stato l’autore di quel “colpo” che fruttò un bottino rilevante tra pellicce, gioielli e denaro contante. L’uomo, però, contattò, tramite “amici degli amici”, un altro potente boss di quegli anni, Antonio Sena. A lui chiese un intervento per ottenere la restituzione del “malloppo”. E Sena accolse l’istanza mandando a chiamare Gigliotti per invitarlo a riportare la refurtiva al legittimo proprietario. Ma quello era un ragazzo che non sapeva ascoltare i “consigli” e mancò di rispetto al boss. «Niente da fare, io non restituisco nulla». Con quel rifiuto Marcello Gigliotti avrebbe firmato la sua condanna a morte e quella del suo inseparabile amico. Sena non tollerò quel gesto e parlò con Pino che in quegli anni era detenuto per il maxi-processo a Palmi (anche Antonio Sena figurava tra gli imputati ma era a piede libero). I due capi concordarono che l’esecuzione sarebbe stata indispensabile perchè Gigliotti era ingestibile. E così fu dato ordine agli azionisti di procedere. Quei due ragazzi furono invitati a un banchetto a base di carne di maiale, secondo le usanze locali. Ma all’arrivo furono giustiziati. Gigliotti fu torturato, poi gli spararono e infine lo decapitarono. A Lenti fu invece direttamente tagliata la testa. I resti mortali di quei due disubbidienti del crimine e la loro auto, una vecchia Fiat Ritmo diesel che usavano per muoversi, riaffiorarono una decina di giorni più tardi dalla neve di contrada Sant’Angelo di San Lucido, lungo una mulattiera, vicino alla Provinciale che lega la Statale 107 a Falconara. Una storia nera di ’ndrangheta, di assassini di mestiere e morti ammazzati che, in parte è ancora sconosciuta.

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