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Ucciso il ministro dei lavori pubblici dei clan

Ucciso il ministro dei lavori pubblici dei clan

La grande guerra è ricominciata, ieri mattina, davanti a un bar-ristorante, sulla Strada Nazionale che attraversa il quartiere dei lidi di Villapiana. Ed è ricominciata con l’agguato a uno degli storici boss di questa terra. Leonardo Portoraro, 63 anni, originario di Cassano Jonio, residente a Francavilla Marittima e interessi a Castrovillari, è stato assassinato davanti all’attività di famiglia. Due sicari hanno eseguito la sentenza di morte con precisione chirurgica e sono andati via lasciandosi dietro quel cadavere “eccellente” e una scia di misteri. Portoraro era un personaggio “scomodo”. Era stato uno dei fedelissimi dello storico padrino Giuseppe Cirillo prima di assumere la guida del clan che poi venne sterminato dagli zingari alla fine degli anni Novanta mentre lui era in carcere. Una volta uscito di prigione, aveva stretto un patto con gli Abbruzzese, una tregua decisa subito dopo l’ultimo morto, Federico “Ricuzzu” Faillace, suo storico braccio destro. Un delitto che non ha ancora un colpevole per la legge. E che è rimasto impunito anche negli ambienti criminali. Nessuna vendetta: le famiglie di Cirò e della Piana reggina volevano solo pace e denari e i kalashnikov da quella sera non hanno più sparato tra la Sibaritide e il Pollino.

In tutti questi anni Leonardo Portoraro si era dato da fare parecchio per ripulirsi, mostrando in pubblico un volto da imprenditore ormai lontano dai guai, sempre elegante e bene accompagnato. Intorno a lui non si vedevano più malacarne. Una redenzione che non aveva mai convinto i detective antimafia che, invece, lo ritenevano “uomo di rispetto” capace di scalare le gerarchie fino a ricevere la delega di ministro dei Lavori pubblici della ’ndrangheta dello Jonio. Tutti gli appalti, le opere, i contratti del cemento sarebbero stati cosa sua. Sua e dei capi del Crimine di Cirò. A maggio, però, è arrivato il via libera al maxi-finanziamento da 1.300 milioni di euro per il nuovo tratto di Statale Jonica, da Roseto Capo Spulico a Sibari, e sono ricominciate le tensioni. Diversità di vedute che sono diventate via via insanabili. Così, prima ancora delle ruspe è arrivato il piombo che ha interrotto la tregua. Portoraro non pensava, probabilmente, d’essere a rischio.

E, ieri mattina era giunto, come al solito, a bordo di una Panda di colore bianco davanti al “Tentazioni” ristorante lounge-bar sulla vecchia Statale 106, il locale di famiglia gestito da una congiunta. Si era seduto al solito tavolo accanto alla vetrata d’ingresso, aveva dato una lettura veloce alle cronache locali della “Gazzetta” e, poi, si era messo a parlare con una persona seduta al suo fianco. A qualche tavolo di distanza una donna in attesa dell’ordinazione. Alle 11.10 cominciavano le grandi manovre per mettere le mani su quei 1.300 milioni di euro cemento e asfalto della nuova Statale 106. Un’Audi A3 sbucava dal nulla da Nord (lato Trebisacce, per capire) e inchiodava proprio davanti al bar. Dalla berlina scendevano due killer, uno armato di pistola e l’altro di kalshnikov, attraversavano la strada e sparavano una valanga di colpi (tra 35 e 40), tutti andati a bersaglio. Probabilmente avevano il volto travisato, sicuramente erano professionisti. Un solo proiettile “sprecato” colpiva la parte inferiore della vetrata, il resto di quella valanga travolgeva Portoraro. E solo lui. Illese miracolosamente quelle due persone che si sono trovate davanti a quei demoni. Tutto in poco meno di sessanta secondi. Poi, via, in direzione opposta (verso Sibari). L’auto verrà rinvenuta carbonizzata nel pomeriggio, in contrada San Francesco, un’area rurale di Villapiana. Sul posto sono arrivati i carabinieri di Corigliano, di Cassano e del Reparto provinciale di Cosenza, diretti personalmente dal colonnello Piero Sutera. L’ispezione cadaverica è stata eseguita dal medico legale Francesco Settembrini alla presenza dei pm antimafia Domenico Guarascio e Domenico Assumma, coordinati dal procuratore distrettuale Nicola Gratteri e dall’aggiunto Vincenzo Luberto. L’inchiesta, naturalmente, segue la pista nera che puzza di ’ndrangheta. Le indagini puntano al clan degli zingari, gli unici veramente interessati a sbarazzarsi della presenza ingombrante del vecchio boss. Sono loro i padroni nella Piana, antica via di crimini e commerci. Sono loro i baroni incontrastati a Cassano ma anche a Castrovillari, Corigliano e Rossano. Li guida uno dei rampolli della famiglia di Timpone Rosso, lo storico quartiere di Lauropoli. Il suo nome è in cima alla lista dei ricercati di polizia e carabinieri, latitante da tempo, probabilmente in Germania. Intorno a lui si muove una pletora di mafiosi di rango inferiore che hanno occupato ogni angolo di questa sterminata terra.

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