C’è un fascicolo già voluminoso, un fascicolo sbarrato dagli omissis. Dentro c’è la relazione dell’autopsia firmata dai consulenti della Dda di Catanzaro e ci sono le dichiarazioni dei testi oculari che, mercoledì scorso, hanno visto quei due assassini scagliarsi contro Leonardo Portoraro. E, poi, ci sono anche le tabelle con i dati balistici, le traiettorie di tiro, i fotogrammi delle immagini delle telecamere a circuito chiuso e la denuncia di furto dell'Audi A3, incendiata subito dopo l’agguato.
L’inchiesta è avviatissima ma sembra una delle tante che vengono aperte e chiuse nella Calabria più mafiosa, quella dei delitti irrisolti e dei sicari sempre ignoti. Quella del sangue che bagna l’inizio delle grandi opere. Era già successo nel 1999 quando cominciò a delinearsi il nuovo tracciato della Salerno-Reggio Calabria. I detctive dell’Arma, guidati dal colonnello Piero Sutera, cercano con cura i particolari, scrutano tra le carte, osservano i fotogrammi. Inseguono dettagli che possano guidare le indagini fuori dal pantano. Si cercano i killer che, probabilmente, non sono locali e si cerca, soprattutto, di ricostruire la rete di fiancheggiatori che ha curato la “logistica”. Probabilmente, quei due sicari erano arrivati a Villapiana tra domenica e lunedì. E sono rimasti nascosti a casa di amici fidati. Gente del posto che potrebbe aver custodito anche la vettura utilizzata per ammazzare il boss e rubata si mesi prima a Rossano. E del posto doveva essere, pure, probabilmente anche l’autista che ha portato i sicari fin davanti alla vittima e subito dopo li ha fatti scomparire dal mondo affidandoli a qualcuno addetto al recupero che li stava aspettando in contrada San Francesco. Ma c’è anche la possibilità concreta che il commando sia stato attivato dalla telefonata di una insospettabile “vedetta” presente in via Nazionale. Uno “specchietto”, un altro complice che avrebbe informato i killer della presenza di Leonardo Portoraro davanti al bar-ristorante “Tentazioni”. E quando è arrivato l’ordine, l’auto è partita avvicinandosi all’obiettivo senza destare sospetti. Un’operazione militare, studiata evidentemente da tempo. Dietro ci sono le menti raffinate dei clan. Gente che ha combattuto le più sanguinose guerre. Gente di questa Calabria della ’ndrangheta, la Calabria dei boss. La Calabria più crudele e amara, che non ha rispetto per i vecchi capi, per chi ha quarti di nobiltà mafiosa ma che si spegne man mano che cresce il potere e la fama dei nuovi padrini. E Portoraro era uno di quei baroni che regnava incontrastato e rispettato nel suo territorio. Poi, però, è arrivato il progetto della nuova Statale 106, un tratto da ricostruire tra Roseto Capo Spulico e Sibari. Pensava che quei 1.300 milioni fossero esclusivamente “cosa sua”. Non aveva fatto, evidentemente, i conti con i “califfi” che regnano nei vicini “stati canaglia” di Doria, Timpone Rosso e Corigliano. Gente abituata a trafficare, a comprare silenzi, a comandare. E, soprattutto, a minacciare. E dopo le minacce, arrivano le pallottole. Sempre. Contro tutti. Anche contro i boss.
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