Come il padre. Stesso ruolo e medesimo ineluttabile destino. Luigi Abbruzzese, figlio prediletto di Franco detto “dentuzzo”, ergastolano e capo della criminalità nomade dell’area settentrionale della Calabria, entra in carcere cominciando la sua avventura tra sbarre e catene come già era stato per il temuto genitore e ancor prima per il vecchio nonno e capofamiglia, Celestino. Luigino è rimasto nascosto a lungo contando sulla complicità di amici, parenti e compari, dividendosi tra la Sibaritide e la lontana Germania raggiungibile da Cassano persino in autobus mischiati ai tanti emigrati diretti a Francoforte sul Meno. Il latitante arrestato dal vicequestore Fabio Catalano che di “primule” ne aveva già snidate tante quand'era in servizio a Reggio Calabria, ha dimestichezza di galere, agguati e fughe fin da bambino: il padre, infatti, è stato nello scorso decennio più volte alla macchia e più volte è stato scovato e ammanettato prima di incassare una condanna definitiva al carcere a vita. La sua famiglia ha combattuto una ferocissima guerra di mafia quando “Luigino” era piccolo costata la vita a due suoi zii, Fioravante e Nicola Abbruzzese, massacrati dai rivali della famiglia Forastefano. Armi, bunker segreti, lutti e sangue sono stati dunque i fissi compagni di giovinezza di questo “figlio d’arte” condannato dalla sorte a fare il boss. Gl’investigatori monitorandone per mesi contatti e movimenti lo descrivono lucido e determinato, lesto a dare ordini perentori a uomini, donne e anziani che affollano le file della criminalità mafiosa sibarita. Affari, alleanze e traffici passavano da lui: una parola di “Luigino” poteva segnare per sempre la vita e le fortune di “compari”, amici degli amici e picciotti in cerca di glorie mafiose.