
Capita di rado. Che un suono sia più di una voce. Uno sguardo più di un volto. Una storia, un luogo dell’anima. Lina Sastri è da tempo una presenza rara nel panorama artistico italiano: attrice dal talento rigoroso, interprete capace di coniugare intensità drammatica e ironia, cantante, autrice di testi letterari e ora regista. Con «La casa di Ninetta», lungometraggio presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, compie un passaggio naturale e insieme coraggioso: portare sul grande schermo una storia intima, tratta dal suo stesso libro, che racconta con delicatezza e verità il rapporto con la madre e i percorsi della memoria.
Stasera, Lina Sastri sarà protagonista al prestigioso i-fest (International film festival) di Castrovillari, nella suggestiva location del Castello aragonese. Presenterà il suo film, riceverà l’i-fest Special Award, realizzato dal maestro orafo Michele Affidato.
Per l’occasione, abbiamo avuto modo di conversare con Lina Sastri sul suo esordio alla regia, sul potere delle storie personali e sul suo sguardo sul cinema di oggi.
La sua regia ha un respiro intimo, profondo. Come ha scelto la grammatica visiva per raccontare un’assenza che è, paradossalmente, così piena di presenza?
«In realtà non ho scelto nulla a tavolino: ho scoperto la mia regia facendo “La casa di Ninetta”. Era la mia prima volta dietro la macchina da presa e mi sono accorta di avere una visione molto precisa. Avevo scritto sia il libretto originario che la sceneggiatura, e gran parte di ciò che racconto viene dalla mia vita reale: forse per questo mi è stato naturale tradurlo in immagini. Sul set non avevamo grandi mezzi, quindi ho girato solo quello che davvero volevo vedere, come se fosse già montato. Non i classici campi e controcampi, ma esattamente ciò che avevo chiaro in mente».
Dopo aver diretto, cosa conserva del suo essere attrice? E cosa, invece, ha scoperto di completamente nuovo?
«Ho riscoperto quello che già intuivo: il cinema appartiene al regista. L’attore può dare tutto, anche un monologo degno della Duse, ma se non serve alla visione sarà tagliato. Ho scoperto anche che mi piace stare dietro la macchina da presa: con il tempo forse non amo più vedermi in volto come in passato, e lì ho trovato una nuova libertà».
Venezia ha accolto il suo esordio alla regia. Com’è stato varcare quel red carpet portando non solo il volto dell’attrice, ma lo sguardo della regista?
«Il red carpet non cambia nulla. È solo una prova della vita, e io resto sempre la stessa: ho paura, mi sento fragile. Sul palco o sul set sono libera, ma quando devo presentarmi come Lina Sastri, andare a ritirare un premio o a rilasciare un’intervista, cadono le difese e resta solo la mia timidezza. Anche a Venezia è stato così: paura, emozione, ma anche la bellezza di vivere quell’esperienza».
C’è un filo che lega la Napoli di Ninetta ai luoghi dell’i-Fest? La forza di territori che cercano di emergere tra perenni difficoltà…
«Il cinema si radica anche troppo in questi territori: Napoli e il Sud sembrano diventati una sorta di Bollywood, tutto si gira qui. Per questo bisogna stare attenti a non cadere nella retorica, oggi più che mai».
Quanto è necessario, oggi, un cinema che sappia mostrare la forza nella fragilità?
«Credo che le domande contengano già le risposte. Oggi vediamo di tutto, ma spesso il cinema sembra smarrito. Se si sceglie di inseguire il successo di pubblico e la grande distribuzione, bisogna sottostare a logiche di potere lontane dalla creatività. Se invece si decide di restare fedeli solo all’arte, bisogna accettarne le conseguenze: pochi mezzi, scarsa distribuzione. “La casa di Ninetta” è nato così, con pochissimi soldi e senza rete. Sono due strade diverse, e ogni artista deve scegliere dove vuole portare la propria “carrozza”. Vorrei solo aggiungere una cosa: Ninetta era mia madre, una donna speciale, quasi magica, una specie di “maghetta”. Una figura che non si arrende, che continua a viaggiare anche dopo un anno. E quindi speriamo che continui ancora».
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