I “padroni” della Tuscia. Uno calabrese, l’altro albanese. Tutti e due decisi a tenere in scacco Viterbo. Come? Minacciando, intimando, sparando, forti di un animus criminale figlio della diabolica miscellanea tra la mafiosità calabra e l’inclinazione alla violenza tipica della criminalità schipetara.
L’esercizio di potere è durato fino all’alba di ieri quando tredici persone sono state arrestate (11 in carcere e 2 ai domiciliari) per ordine del Gip capitolino su richiesta del procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino, e del pm antimafia Giovanni Musarò. Due magistrati che conoscono bene stili e metodologie della ’ndrangheta per averli a lungo combattuti nella nostra terra, a Reggio Calabria, dove in precedenza prestavano servizio.
I personaggi centrali dell’inchiesta con cui vengono contestate ipotesi di reato che vanno dall’associazione mafiosa alle estorsioni, passando per i danneggiamenti, gli incendi, i tentativi di rapina e le lesioni personali, sono Giuseppe Trovato, detto “Peppino”, 44 anni, originario di Lamezia Terme e Ismail Rebeshi, inteso come “Ermal”, nato nel Paese delle Aquile. In forza d’un patto di alleanza, i presunti boss controllavano il territorio usando la violenza.
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