Sulle orme del Móse: un grande progetto per salvare il Parco di Sibari dalle acque. È questo l’obiettivo della presentazione convocata per sabato alle 10,30 nella sala conferenze del Museo nazionale archeologico della Sibaritide e nel corso della quale relazioneranno il direttore del Parco, l’archeologo Filippo Demma e l’ingegnere Nilo Domanico, già direttore di progetti di livello mondiale – come la realizzazione dell’orto botanico dell’Oman in pieno deserto.
Come è noto, le aree archeologiche e lo stesso Museo, come tutta la piana di Sibari, sono interessate da un particolare assetto geomorfologico di carattere altimetrico ed idraulico: la subsidenza. Per effetto di questa il livello del terreno è soggetto ad abbassamenti e gran parte delle strutture archeologiche relative alle tre città di Sybaris, Thurii e Copiae custodite dal Parco, è in realtà immersa in una falda acquifera spessa in media 25 metri e già per sé molto alta, a causa della vicinanza dei bacini idrografici dei fiumi Crati e Coscile.
«L'acqua è la vera maledizione di chiunque si ponga a scavare questa plaga» - così si esprimeva nel 1932 l’archeologo Umberto Zanotti Bianco, che iniziava i primi scavi nell'area poi nota come Parco del cavallo, proprio da una delle sue scoperte. Nel 1969, in occasione dell'avvio della lunga stagione di scavi, fu installata una rete di pompe idrovore (well-point), che – con gran dispendio di energia elettrica e costi elevatissimi – ha tenuto gli scavi relativamente all’asciutto per circa un cinquantennio, fino a quando un mal funzionamento ne ha reso necessaria la sostituzione.
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