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Monsignor Savino: “Cultura e libertà antidoti contro l’antivangelo delle mafie”

Intervista al vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana. Il vescovo di Cassano parla degli errori commessi in passato e invita le forze sane della società a fare diga rispetto alle ‘ndrine

Il vescovo della diocesi di Cassano Ionio, Francesco Savino

Francesco Savino, vescovo di Cassano, è stato eletto vicepresidente della Cei (Conferenza episcopale italiana) con delega al Meridione. Cassano è la diocesi passata alla storia della Chiesa perché nel giugno del 2014 Papa Francesco, durante una visita nella Sibaritide, “scomunicò” i mafiosi. In quei luoghi, quattro mesi prima, era stato ucciso e bruciato dai killer delle cosche un bambino di tre anni. La vicenda fece inorridire il mondo, spingendo il Pontefice a venire in Calabria. L’incursione di Jorge Bergoglio in terra di ’ndrangheta cambiò molte cose. Cominciamo da qui la nostra intervista a monsignor Savino.

Qual è oggi l'atteggiamento della Chiesa di fronte alle mafie?

Negli ultimi decenni, la Chiesa ha manifestato una maggiore consapevolezza nei confronti del fenomeno mafioso ma anche un maggiore impegno. Così come è accaduto in ambito sociale. Questa consapevolezza si è tradotta in scelta di strategie per combatterla e arginarla. Nel 2010 la Conferenza Episcopale Italiana stigmatizzava il fenomeno mafioso come “la configurazione più drammatica del male”. Un male da estirpare come quelle erbacce che impediscono la crescita di fiori rigogliosi. Questo interesse ha assunto sempre più i contorni della denuncia a muso duro e si è sublimato con la beatificazione di Rosario Livatino, nel maggio 2021. Oltre al valore umano e morale del magistrato assassinato dalla Stidda, quello che impressiona è il messaggio sotteso e potente che in qualche modo la Chiesa ha voluto lanciare: un martire della fede, di giustizia, che si è fatto testimone di legalità. Oggi la Chiesa ritrova sempre più il coraggio di condannare la barbarie della criminalità organizzata riconfigurando quei valori che sono culturali, sociali e umani forse anche prima di essere religiosi. È un bene che negli ultimi anni l’impegno della Chiesa si sia amplificato, grazie all’autorevolezza di pontefici come Giovanni Paolo II ad Agrigento, Papa Francesco a Cassano all’Jonio, che hanno gridato il no della Chiesa. L’attuale Pontefice, proprio nella mia Chiesa ha usato la parola scomunica. In alcune regioni italiane questo fenomeno ha attecchito maggiormente, perché ha creato legami e poteri a causa e con la complicità di una religiosità deviata e ad una superficiale presenza dello Stato (basti pensare ad inchini e padrini). Solo una alleanza tra le forze buone della società, fra queste la Chiesa, può arginare questi fenomeni diventando una diga allo strapotere mafioso e ndranghetista. La via più forte e significativa è quella della cultura, dell’evangelizzazione e della liberazione integrale grazie anche al lavoro. Le povertà creano dipendenze.

In passato sono stati commessi errori e fatte sottovalutazioni?

Probabilmente sì. Ma dal passato bisogna partire, valutando le debolezze, per la costruzione di un futuro che miri a centrare le giuste scelte. Il passato non va solo criminalizzato, ci sono episodi di cui bisogna vergognarsi, chiedere scusa, nella Chiesa e nella società, ma bisogna fare anche un serio discernimento. Alla fine, conta saper scegliere da che parte stare e questo lo si può fare solo conoscendo a fondo le ragioni che hanno portato ad alcune devianze.

Manifestazioni di pietà popolare, processioni, battesimi,  funerali cosa è cambiato dopo la scomunica di Bergoglio?

La pietà popolare è una forza evangelizzatrice e non va confusa con forme carnascialesche e superstiziose del culto, uso improprio della fede. Papa Francesco sostiene che la pietà popolare è una forma ben riuscita di inculturazione del Vangelo. I Vescovi calabresi l’hanno detto con chiarezza: la ndrangheta è l’antivangelo e l’antifede. La fede è amore, donazione, rispetto, perdono, custodia e difesa della vita. È nel dinamismo rituale che un popolo si ricrea, mescolando le sue identità e pensandone nuove. C’è chi si insinua per uso distorto e malvagio. Questo va additato come male, con chiarezza. Sta al cristiano scegliere con fermezza di non aderire a forme ingenerose e false di fede. Io credo che il vero salto, in termini di cambiamento, si sia avuto al di là delle paure. La gente perbene ha trovato, anche e soprattutto grazie alle parole del Santo Padre e dei Vescovi, ma anche di tanti sacerdoti e laici, la forza di dire no alla schiavitù della mafia. Ed io, insieme ai miei confratelli vescovi calabresi e dell’area Sud della nostra Italia, lottiamo ogni giorno per alimentare quel coraggio e dissipare quel terrore su cui la mafia punta quasi con solerzia. Lo facciamo puntando sulla via educativa, preventiva che deve essere irrobustita.

Due diocesi calabresi sono state investite da situazioni imbarazzanti ed i vescovi sostituiti: i problemi sono stati superati?

Sono situazioni particolari, ferite che vanno curate. La Chiesa ha fatto delle scelte forti per dare un segnale di trasparenza, di verità. Ma non compete a me giudicare. Certe vicende lasciano strascichi lunghi nella storia delle comunità. I semplici restano scandalizzati, noi dobbiamo fare la nostra parte nella direzione del bene. Dobbiamo far meglio e sostenere con la preghiera e scelte trasparenti quanti soffrono, hanno sofferto e chiedere il dono del Signore perché chi eventualmente ha sbagliato si possa ravvedere.

Prima di Lei ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della CEI il compianto mons. Giuseppe Agostino: cosa vi unisce spiritualmente e idealmente?

Credo che ad unirci sia il coraggio dell’azione episcopale. Operare al sud e per il sud è un compito di una importanza da non sottovalutare. Il sud è quello della gente con gli occhi dell’accoglienza, delle tavole imbandite in cui il cibo è dono, è l’anima nel piatto. Il sud è quello della gente con gli occhi solcati dal sole dei campi o dalle lacrime dei tantissimi giovani che, ogni anno, partono perché il loro talento sia valorizzato altrove. Il sud è il luogo in cui terra e mare si fondono sulle linee di orizzonti indefiniti e sognanti. Ma il sud è anche la scelleratezza di alcune classi politiche, la connivenza con la mafia, la sanità commissariata o inaccessibile ai più, perché in mano a pochi noti. Operare al sud vuol dire essere in grado di sapersi muovere su registri comportamentali (e spesso anche spirituali) diversi focalizzandosi sugli ultimi che sono sempre quelli più periferici e dimenticati. Io credo che il sud se lo porta nel cuore ogni buon pastore. Così è stato per Mons. Agostino e così è e sarà sempre per me. Per compiere una buona azione pastorale al sud, anche nelle piccole diocesi, c’è bisogno di non arretrare mai, di accompagnare la comunità che ci è affidata verso orizzonti sempre fecondi, di seminare la cultura del buono e del giusto e di avere cura di non dimenticare nessuno. Il mio impegno, perché la bellezza dei luoghi e della gente sia valorizzata, non si arresterà mai.

Che messaggio si sente di dare alla classe politica calabrese?

Prima di diventare vescovo sono stato parroco. Ho accolto le sofferenze della gente, le ho condivise, e mi sono lasciato ogni giorno convertire. Non voglio cadere nella trappola dell’autocelebrazione ma voglio raccontare quello che è sempre stato il mio sentire, in modo da canalizzare molta di quella sofferenza che ho fatto mia. Da vescovo di Calabria le richieste di aiuto sono aumentate in maniera esponenziale ed al dolore per gli ultimi si è aggiunto un desiderio di riscatto e di liberazione che non mi fa tacere e non mi zittirà mai. La Calabria ha bisogno di viaggiare su nuovi binari e a tracciarli deve essere proprio la classe politica. La politica deve tornare nelle piazze, soprattutto nelle periferie, quelle più abbandonate, non per amplificare sterili proclami, ma per accompagnare la fatica della gente, per seguirne lo sguardo perso verso il futuro, per asciugarne la dignità del sudore. Il dolore degli uomini e delle donne di Calabria deve essere il dolore di ogni rappresentante politico, perché ad esorcizzarlo sia proprio la sua comprensione e condivisione. La politica deve dire basta ai favoritismi, alle clientele, alle privatizzazioni senza criteri, deve dire basta ad ogni forma di connivenza e di contiguità con chi si serve del territorio più che mettersi a servizio dello stesso. La politica deve fare in modo che ogni cittadino calabrese abbia gli stessi diritti, le stesse possibilità. Penso ad esempio alla Sanità. Una vera politica deve farsi guidare solo e soltanto dai beni comuni. C’è un bene più grande che è quello della gente. Ho paura della forbice che la pandemia ha creato, sbilanciando il ventaglio di possibilità tra le persone non solo di curarsi ma anche di mangiare. Ho paura ogni qual volta sento un calabrese andare a curarsi al nord, ho paura nel sentire che al nord a curarlo è un primario o un luminare conterraneo. Alla politica chiedo compassione, che è un soffrire assieme alla gente, competenza e non disponibilità a rispondere a interessi di pochi o di qualche lobby. Chiedo consapevolezza, che è un rendersi conto di quanta potenza (che è molto più di potenziale) umana questa terra abbia. Chiedo verità, che dia risposte concrete a padri e figli di Calabria. Chiedo infine gentilezza che è il principio del galateo e dello stare insieme, instaurando legami veri e fiduciosi, fondamenta di una società civile.

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