Temeva d’essere ucciso e voleva dare un futuro diverso a sua figlia Ivan Barone. Il pentito, che ha avuto un ruolo di primo piano nella ’ndrina degli zingari, autoaccusandosi di parecchi reati, sta ricostruendo, tessera dopo tessera, il puzzle dei clan cosentini in moda consentire ai magistrati della Dda di Catanzaro di ricostruire un quadro più chiaro del romanzo criminale bruzio. Nel 2019, dopo l’arresto dei fratelli Abbruzzese, i cosiddetti “banana”, nell’ambito dell’operazione “Testa di serpente”, Barone – secondo quanto sarebbe già stato messo a verbale – avrebbe assunto un ruolo di primo piano nell’organigramma del clan. Sarebbe toccato a lui occuparsi della gestione delle estorsioni. Un incarico che egli avrebbe svolto con un potere semi-assoluto in quanto, racconta, che si poteva permettere «anche il lusso di esonerare alcuni titolari di negozi e attività commerciali dal pagamento dell'estorsione». Il pentito ricorda d’aver «graziato» il titolare d’un bar, il quale «inviava direttamente un pensiero a Maurizio Rango». Molte estorsioni venivano addirittura riscosse in prima persona. Barone si è autoaccusato del pizzo intascato in un unica soluzione (in luogo delle rate di Natale, Pasqua e Ferragosto) dal titolare di un supermercato in via degli Stadi. E ha menzionato pure un’estorsione a un alimentari dal quale avrebbe ottenuto 2.200 euro. Infine avrebbe fornito i particolari di quella «ai danni di un noto bar cittadino» il cui titolare era tenuto a versare, racconta Barone, tremila euro al clan degli «italiani» e la cui metà veniva «consegnata agli zingari».
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