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Dieci anni fa il martirio del piccolo Cocò: “La Calabria si ribelli alla dittatura dei clan”

Il fondatore di libera don Ciotti invita la gente a schierarsi apertamente. Il prefetto cita Falcone e il vescovo avverte: «Non ci sarà pace finché esisterà la ’ndrangheta»

«Non basta indignarsi, bisogna muoversi». È questo il monito lanciato da don Luigi Ciotti, fondatore e frontman di Libera, per smuovere le coscienze contro l’ipervalore della delega. Il presidente di Libera è tornato a Cassano per la manifestazione in ricordo del piccolo Cocò ucciso dalla ’ndrangheta dieci anni fa e ha tenuto subito a precisare che lui è un io ma che è un “noi” perché il singolo senza l’unione, il gruppo, non può nulla. In particolare contro cosa nostra perché «la malattia più terribile è la neutralità». A scendere in piazza per dire “ora basta! Non vogliamo morire di ’ndrangheta”, insieme ai tanti studenti e alle associazioni cassanesi (ma non solo), c’era il prefetto di Cosenza, Vittoria Ciaramella, il vescovo di Cassano e vice presidente Cei, monsignor Francesco Savino, c’erano i massimi rappresentanti delle forze dell’ordine del territorio, c’erano rappresentanti politici e istituzionali guidati dal sindaco della città delle terme, Giovanni Papasso – il primo a parlare di cappa sul territorio cassanese – e il collega di Scalea Giacomo Perrotta. E poi c’era don Luigi Ciotti, presidente nazionale della più importante associazione antimafia che opera in Italia. Un intervento accorato e passionale, il suo, che ritorna nella città delle Terme per catechizzare la popolazione ed un intero territorio al valore della partecipazione.
«Siamo qui – ha detto il fondatore di Libera – per ricordare Cocó, un bimbo spazzato via da inaudita violenza criminale e mafiosa, per ricordare altri centoventi bambini assassinati nel nostro Paese, per non dimenticare la strage di innocenti. Ma non dobbiamo dimenticare che queste morti devono mordere le nostre coscienze, devono interrogarci, devono diventare un’assunzione di responsabilità». Poi, il presidente di Libera riprende un altro grande passaggio della missione di prete contro la mafia: quello della partecipazione. «La malattia più terribile – ha detto – è continuare a vedere che in molti continuano a dare troppo valore alla delega, cioè che delle cose che riguardano tutti devono occuparsi sempre altri. Così come un’altra malattia terribile è la neutralità, quelli che non hanno voglia di sporcarsi le mani, che non si schierano mai. E poi c’è la terza malattia, quella più preoccupante: la rassegnazione». La lezione di vita di un sacerdote di periferia, venuto dal profondo Veneto ad insegnare ad una generazione intera cosa è il coraggio di sporcarsi le mani. Una lezione che vale per ogni cosa della nostra vita e che ha un valore ancora più importante nella Calabria del nord-est dove il menefreghismo verso il bene comune, verso i problemi di tutti è ai massimi storici. Il fondatore di Libera ha poi ricordato le parole di papa Francesco contro la ’ndrangheta.

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