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Capossela, sciamano del futuro

L’eco del mito e le apocalissi annunciate, gli accidenti dell’Occidente e le “canzoni urgenti” che sono altrettanti incantesimi, profezie, scongiuri

La solitudine del paese che dorme abbandonato, l’eco di un lupo mannaro, una natura che non è solo rassicurante. Eccola la poesia di Otello Profazio, che con «La notte è bella in tre strofe dice tutte le cose. Non sta lì tutta la Calabria? La sua è l’ultima voce umana di una stagione folk che ha cantato gli ultimi. Lo avevamo anche invitato allo Sponz Fest nel 2014, quando l’edizione era dedicata al sogno del treno, lui aveva questa canzone straordinaria, “Mannaja all’ingegneri”, ché se non si fosse inventata la ferrovia forse non si sarebbe mai andati via». Perciò ad Armonie d'Arte festival, questa sera, al concerto al Parco archeologico di Sibari, ci sarà un omaggio al maestro. Lì sarà inevitabile, «tra pietre e allegorie, il repertorio dialogherà col luogo del concerto e la memoria».

Vinicio Capossela è come una lunga locomotiva che sbuffa nella notte, come un galeone che ha trovato il tesoro mentre non smette di cercarlo. Lui è congiunture senza allineamento, polare e bruciante, un uomo impastato di passato e futuro e terra, capace ogni volta di elevarsi fino a scavare gli abissi.

Ti senti parente dei calabresi?
«Mi ha sempre affascinato il mito, il Mediterraneo, la Grande Grecia. Quando da piccolo leggevo l’Odissea mi sembrava di sentire le mie nonne, le mie zie nel parlare vicino al focolare, quel tono, quel senso un po’ epico delle cose, anche tragico».

Anche profetico.
«Molto, sciamanico e doppio. Tra il razionale e l'irrazionale. Nel nostro Sud c’è una comunanza antica, millenaria eppure ultralocalistica».

Cosa c'è rimasto di quella Grande Grecia, di quel grande mito?
«Storie bellissime, terminate con l’iPhone. C’è ancora un substrato mitico, ma ora la storia, le credenze le fanno altre cose, sono cambiate le fonti. Facilmente si degenera nel culturismo, nello sciovinismo. Non c’è più la purezza atavica del passato, c’è però ancora un racconto del mondo che può rendere più ampio il mondo stesso, a patto di crederci, di prestare ascolto. Il cambiamento più profondo è nella disponibilità del tempo».

È cambiata anche la disposizione alla fede, la credenza cos’altro è?
«Per questo facciamo i concerti! Che dovrebbero essere quel tempo in cui ancora si è disposti a diventare creduloni, una sospensione dell’incredulità. Per trasportarsi, per alterarsi nella propria percezione».

Le “Tredici canzoni urgenti”, ultimo album di Capossela, uscito ad aprile (e vincitore della Targa Tenco 2023 come miglior album in assoluto), sono un'unica eterogenea covata. In cui il tempo rivela tutte le sue chiavi d'accesso. Il tempo a servizio della storia da raccontare, con la musica che si fa onomatopeica, che anche nelle opposizioni sostiene il senso della parola.

Il disco l’hai composto più di un anno fa. Quelle storie le senti ancora con la stessa urgenza? Pare ci si abitui a tutto.
«Mi pare diventino ogni giorno più urgenti, non c’è nulla di superato, anzi. Di peggiorato ulteriormente. Una certa voracità, la bulimia del consumo, una partecipazione civile che manca e se c’è è illusoria, i lassismi occidentali, l’abitudine alla guerra».

E le soglie di reazione si sono ancora di più abbassate...
«Quando ho cominciato a scrivere questi pezzi non c’era ancora questo governo, quindi tutta una serie di messaggi che tendono sempre ad abbassare di più la soglia del consentito, anche moralmente. La guerra, sì, era appena iniziata, ma ancora si poteva sperare. Questa estate cosa ci sta dicendo? L’acqua è alla gola, le cascate disseccano, la terra si crepa, l’aria manca. Se ne possono aggiungere altre, ma nessuna di quelle ha perso vigore».

Quindi l’Occidente va alla morte?
«L’occidente, in greco, è proprio il luogo dove va a morire il sole. C’è quel passaggio bellissimo dell’Odissea in cui vanno alle terre Cimmerie, terre dove non c’è mai la luce ed è da lì che Ulisse parte. Per accedere al regno dei morti e quindi ridare loro memoria e parola, deve portare due capri, uno bianco e uno nero, e sgozzarli: quelle ombre senza nervi si avvicinano al sangue, bevono e per poco riacquistano la voce. Quasi che voce e parola siano il sangue, la sostanza più vitale. Non lo so se l’Occidente va alla morte, di sicuro nel mito l’Occidente è la direzione in cui vanno a morir le cose».

Hai mai temuto di perdere l’ispirazione o, d’altra parte, te lo sei mai augurato?
«Scrivere canzoni nuove è soltanto una fatica che, se uno può, meglio risparmiarsela. Ma quel che è più raro è trovare gente disponibile ad ascoltare. Fosse anche solo il proprio pubblico che, se esiste, preferisce i pezzi che già conosce mentre il resto, bello per quanto sia, è solo noia. Dunque è una iattura l’ispirazione, è auspicabile che ci abbandoni. Ma a volte succede, come è successo, che ci sono cose che s’impongono sulla propria volontà e che comunque hanno sempre qualcosa di miracoloso. Che un brano esista o non esista non è mai la stessa cosa. Sottrarsi alla scrittura è perdere un'occasione di andare oltre la morte quotidiana».

Tredici è un numero casuale o...?
«Hanno rischiato di essere 14. Ma quando me ne sono reso conto ho detto... “meglio fermarci qui”. Il 13 segue il 12, che è estrema ciclicità e ordine. Invece, con una sola unità in più, si precipita nel caos, nell’incerto e tutto diventa urgente. Vengono facili le battute del tipo “non si voleva fare un disco dozzinale”, oppure “una di loro mi tradirà”. La verità è che non era voluto, lo è diventato».

Ci salutiamo col suo motto. «Tutto è bene quello che non finisce mai!”.

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