C’è tutto già nel titolo, “Lo psicopompo”, dove un quasi desueto termine della cultura classica ci riporta alle divinità che si riteneva accompagnassero le anime nel tragitto dalla vita alla morte. E c’è quel suffisso «psico», che ci ricorda tutto ciò che abbiamo capito, sempre delle nostre anime oltre che delle nostre menti, da Freud in poi. Lo spettacolo, prodotto da Scena Verticale di Castrovillari, scritto, diretto e ben interpretato da Dario De Luca, insieme con una fondamentale Milvia Marigliano, già onusto di premi, è approdato per la prima volta a Milano, nella stagione del Teatro Menotti.
Purtroppo – è il caso di dirlo – l’attualità di questo testo che parla di eutanasia, già forte al debutto in Calabria nel 2019, alla vigilia del Covid, è diventata estrema oggi, quando un Parlamento tentennante non riesce a legiferare sull’argomento nonostante il richiamo della Corte Costituzionale.
Lo spettacolo di De Luca (protagonisti una madre e un figlio, allontanati dai dolori della vita e chiusi nelle rispettive solitudini) ha un valore teatrale di per sé, ma è chiaro che il nostro tempo di incertezza accentua significati e circostanze, amplia gli orizzonti, coinvolge il pubblico, anche se nel tragico finale il pannello-finestra trasparente viene spostato non a caso al proscenio. Come dire: tutti noi tendiamo a credere che certe cose capitano solo agli altri, «ci dispiace per loro» senza essere del tutto coinvolti.
Già la scenografia (sempre di De Luca)! Essenziale e significante: una dormeuse che ci riporta alle sedute di psicoanalisi, il pannello mobile già citato, un giradischi che, dando presenza al terzo protagonista che aleggia da morto, sottolinea l’importanza della musica (suono di Hubert Westkemper): prima ci introduce di colpo nella vicenda con il famoso incipit di «Così parlò Zarathustra» di Strauss e poi diventa d’ambiente con «Music for Airport» di Brian Eno (l’autore spiegava: «Musica tanto ignorabile quanto interessante»), quando l’eutanasia prende corpo sul palcoscenico. La scena, in un flash che precede l’inizio (luci di Mario Giordano), appare in tutta la dimensione di solitudine, richiamando i celebri dipinti di Hopper o anche l’inquietudine da tempo sospeso del “realismo magico” italiano.
Sono tocchi da maestro, bisogna dirlo, e Milvia Marigliano è la profetessa di questa inquietudine che rimbalza dal palcoscenico alla platea per tutto lo spettacolo. Non teme di andare anche sopra le righe nel raccontare il suo dolore di madre che ha perso un figlio e che è stata abbandonata dall’altro, stanco di non essere più “visto” davanti alla malattia del fratello. Lo fa perché il dramma da camera diventa archetipo alla maniera delle tragedie greche (è la magia del teatro) e una Cassandra che vede oltre anche oggi è ignorata nonostante le sue verità. La madre ritrova il figlio, quando, in cerca di un’eutanasia che ritiene necessaria per le sue patologie psicologiche (altro tema in discussione), scopre che è diventato un infermiere che accompagna dolcemente alla morte i malati terminali. Il finale inatteso (ma forse no) non consente che sia rivelato, ma l’intenso applauso che lo premia ha un importante significato di partecipazione emotiva (senza dimenticare quel pannello che lascia il dolore solo a chi lo vive veramente).
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