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«Lo splendore» condiviso che chiamiamo vita. Da Cosenza parla Pier Paolo Di Mino

Lo scrittore ha incontrato il pubblico nella città dei bruzi, dove è nella decina finalista del Premio Sila

E’ seduto davanti a me. Tra gli scaffali di una libreria. Con lo sguardo di chi ha viaggiato attraverso secoli di letteratura per tornare a raccontarci una storia antica e nuovissima. Pier Paolo Di Mino, romano, classe 1973, conserva la pacatezza di chi sa di aver compiuto un’impresa titanica. Finalista del Premio Sila, nella decina 2025, lo incontro a Cosenza, dove ha presentato «Lo splendore – L’infanzia di Hans», primo di sette romanzi. Di un’epopea.

Berlino, 1911. In un sobborgo della capitale tedesca, mentre l’Europa scivola verso l’abisso della Grande Guerra, nasce Hans Doré. Il «vero re», colui che potrebbe salvare l’umanità dalla «macchina della necessità». Ma chi è davvero Hans? È l’interrogativo che attraversa il romanzo, dove la realtà dell’esperienza si confronta con quella che Di Mino chiama «realtà reale», la trama simbolica nascosta nel cuore degli avvenimenti.

Mentre parla, Di Mino gesticola con le mani da scrittore, mani che hanno tessuto una narrazione capace di attingere tanto dalla tradizione modernista quanto dalle profondità della sapienza cabalistica. «Lo Zohar, il Libro dello Splendore – spiega – è una delle fonti d’ispirazione, ma anche Cervantes e Sterne». Che miscela: il misticismo ebraico col più irriverente sperimentalismo romanzesco. In un’epoca dominata dalle storie usa e getta, Di Mino ha scelto la via dell’ambizione letteraria. Ha scelto di scrivere un romanzo che è anche epopea popolare, avventura rocambolesca, indagine metafisica. Un romanzo che, come accade per i grandi libri, sembra essere stato scritto in una lingua dimenticata che tuttavia riconosciamo come nostra. Ma è lui stesso a raccontarmi il suo viaggio attraverso “Lo splendore”, un libro azzurro fatto di parole che, come quello visionario della sua narrazione, ci guida verso una luce che pensavamo perduta.

Il romanzo affonda le radici nella tradizione modernista, ma si nutre anche di narrazioni bibliche, cabalistiche e alchemiche. Come hai lavorato su questo intreccio di fonti?
«Non ho cominciato a lavorarci per scrivere un romanzo. È una lunga storia di lettore, di appassionato, di studioso. Ma non sono uno studioso che precede la scrittura. L’ho scoperto dentro di me, che esisteva questo romanzo. E che poi l’avrei scritto».

Hans è descritto come il «vero re», destinato a salvare il mondo dalla «macchina della necessità». In che modo questa figura messianica dialoga con i grandi archetipi letterari e religiosi della letteratura?
«In verità è abbastanza ubbidiente a quell’archetipo. Ma Hans ha una sua individualità, come capita a tutti noi. È nato in una specifica data della modernità e ha una buona occasione – umana –, di affrontare qualcosa che noi conosciamo bene. L’ambiguità dell’uomo. Lui può essere il vero re. Lo sarà, probabilmente, bisogna vedere se di questa occasione ne farà del bene».

Il Libro azzurro, oggetto visionario e quasi magico, è centrale nella narrazione. Puoi dirci genesi e significato?
«Il Libro azzurro – così viene descritto – è fatto solo di immagini, o meglio, le parole sono immagini, un po’ come nella pittura rinascimentale. E non tutti ci vedono qualcosa, molte persone ci vedono pagine bianche. Altri vedono una figura. Altri ancora cose diverse. Gustav, ad esempio, ci vede tutto il mondo. Perché dentro questo specchio assolutamente mutevole, che riflette completamente lo splendore e l’intero romanzo, a un certo punto si vede la storia che i personaggi stanno vivendo e quindi in qualche modo è anche la loro anima. È un po’ come quando Dioniso si specchia e vede il mondo. È un libro che non esiste, che noi abbiamo fatto esistere per questo motivo».

Dal comico al tragico, dalla parodia al sacro. Come hai gestito questi cambi di tono?
«Spero con grande naturalezza, perché le nostre vite sono storie e ogni storia ha una sua retorica, per cui tutti quanti, chiunque ha spesso momenti estremamente comici, farseschi, orrorifici, tragici. Così ho cercato di dar voce alle persone grazie a delle retoriche ma ho raggiunto queste retoriche anche dando voce a queste persone».

Nel romanzo si avverte una forte tensione tra necessità e libertà, destino e scelta. Quanto conta il libero arbitrio?
«Tantissimo. Noi non scegliamo dove nascere, come nascere, in quale forma fisica, che gusti avere. Nessuno sceglie se gli piace la mela anziché la pera. Ma tutti siamo liberi di scegliere cosa fare di noi stessi, quale inclinazione decidere di far prendere alla nostra vita, verso lo splendore o l’orrore».

Hai spesso lavorato con altri autori. In che modo questa esperienza di scrittura condivisa ha influenzato la costruzione di un’opera così stratificata?
«È stato importante, perché saper dar voce a tanti personaggi significa dialogare con altre persone reali. Adesso lo faccio con persone un po’ meno materiali. E in qualche modo questa esperienza continua ancora perché una parte del progetto comprende un dialogo costante con Veronica Leffe che costruisce le immagini».

Cosa speri che resti nel lettore dopo aver finito “Lo splendore ”? C’è un messaggio o un’immagine che vorresti si sedimentasse?
«Un messaggio no, non c’è. C’è un’immagine che vorrei rimanesse, l’immagine dello splendore, di quanto è bello questo racconto che viviamo e che si chiama vita».

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