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Nicola Femia, l’affiliato “riservato” dei clan

Nicola Femia, l’affiliato “riservato” dei clan

Una vita spericolata. Condotta tra ’ndranghetisti, narcotrafficanti e montagne di soldi. Nicola Femia, 56 anni, era un “affiliato riservato” alla mafia calabrese. Nel senso che ufficialmente non è mai stato “battezzato”. «Vincenzo Mazzaferro non voleva… ha preferito che rimanessi riservato». Con il capobastone di Gioiosa Ionica morto il 13 gennaio del 1993, “don Nicola” ha fatto affari d’oro negli anni ’80. È stato lui stesso a rivelarlo al procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto ed ai pm antimafia Vertuccio e Viscomi negli interrogatori sostenuti tra il 16 febbraio e il 23 marzo scorso iniziando il percorso di collaborazione con la giustizia. Il suo campo d’azione dal 1983 in avanti è stata l’area compresa tra Santa Maria del Cedro, Scalea, Diamante, Praia, San Nicola Arcella, Cetraro, con contatti e puntate pure a Cassano allo Ionio, Sala Consilina, Angri e Vicenza. Di droga, in quegli anni, ce n’era in abbondanza. La ‘ndrangheta già contava tantissimo sullo scacchiere mondiale dello smercio di cocaina. «Mazzaferro» rivela il boss pentito «importava ogni tre mesi dai duemila ai tremila chili di cocaina purissima dal Sudamerica. Io per la mia zona ne prendevo venti o trenta chili per volta. La pagavo a 25-26 milioni al chilo e la rivendevo a 70». I soldi entravano a valanga. Femia ha confessato di aver fatto uso, con la moglie, di “polvere bianca” – «ma non come vizio» – aggiungendo anche che il fratello, Antonio, sarebbe morto d’infarto per l’eccessivo uso personale di cocaina. Il padrino, condannato nel marzo scorso a 26 anni e 10 mesi di reclusione dal Tribunale di Bologna a conclusione del processo “Black money”, aveva già messo in piedi la gestione dei videopoker in Calabria prima di trasferire il “ramo d’affari” in Emilia Romagna. «Distribuivo le macchinette a Castrovillari, Cassano, Terranova da Sibari e nella mia zona in 70-80 bar e guadagnavo fino a 300 milioni di lire ogni due mesi». Per gestire le “macchinette” aveva messo su un ufficio-deposito a Santa Maria del Cedro. LI riceveva amici e clienti. Femia, tuttavia, dopo la morte di Mazzaferro ha continuato a smerciare droga. Ha messo in piedi un altro giro contando sull’appoggio di Antonio Cataldo, di Locri «che ho ospitato da latitante per due mesi nell’estate del ‘98 a San Maria del Cedro». Oltre che alla cocaina il boss ha poi allargato i suoi interessi all’eroina stringendo un patto di ferro con dei narcos albanesi. E tra il 1999 e il 2000 ha trattato fino a 60 chilogrammi di “roba” nel quadro di un investimento condiviso con dei “soci”. «Hanno finanziato l’acquisto dello stupefacente» spiega il pentito «Carmelo Falleti di Rosarno, Franco Valente di Scalea e Domenico Caiazzo di Angri». I verbali di confessione sono falcidiati dagli omissis ma si comprende perfettamente che “don Nicola” manteneva rapporti sia con “compari” di altre zone della Calabria che della Campania. Ai magistrati inquirenti, coordinati dal procuratore capo Nicola Gratteri, ha infatti precisato di aver fatto buoni guadagni anche con il gruppo di Vito Gallo attivo a Sala Consilina. E pure il Veneto non è stato risparmiato dal famelico desiderio di Femia di far soldi con la droga. «A Vicenza fino al ‘91 piazzavamo lo stupefacente con Michele Capogrosso, un ragazzo vicino a me che è poi morto nel 1997». Il boss ha confessato infine di aver frenato con la forza il tentativo di inserirsi nel mercato degli stupefacenti nell’area dell’Alto Tirreno cosentino operato da un gruppo di napoletani. «Nel ‘94 quando sono uscito dal carcere ho ordinato che venisse bruciata la casa dove risiedevano, a Santa Maria del Cedro. Dopo l’incendio sono venuti a parlarmi ed ho detto loro che potevano vendere la droga solo se la compravano da me». Chi sbaglia paga. Queste sono le regole. Nicola Femia con i magistrati ha parlato di molte altre cose. Il traffico di stupefacenti ha infatti rappresentato solo un ramo delle sue molteplici attività criminali...

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