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I Graviano e l'attacco allo stato ideato in città

I Graviano e l'attacco allo stato ideato in città

I Graviano di Brancaccio. Filippo e Giuseppe, temuti in Sicilia, rispettati dai mafiosi di rango di mezza Italia, legati da un rapporto di ferro a Totò Riina e Leoluca Bagarella. Ispiratori e mandanti delle stragi terroristico-mafiose degli anni 90 e responsabili del martirio di padre Pino Puglisi. Due boss feroci ora reclusi in regime carcerario speciale. Sembra quasi incredibile ma il più tristemente famoso tra i due fratelli, Giuseppe, soggiornò a Cosenza. Non solo: siccome amava la montagna ed i boschi venne pure portato in giro in Sila. E visitando l’ameno altopiano al padrino venne in mente di trovare un rifugio sicuro – una villetta – per ospitare il più celebre dei latitanti siciliani: “Totò u curtu”. Del soggiorno in terra dei bruzi di Graviano parla con dovizia di particolari l’ex killer pentito Nicola Notargiacomo. «Giuseppe Graviano è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino, nell’estate 1988. Andammo insieme a Camigliatello Silano per fare una gita . Pernottarono presso l’abitazione di Stefano Bartolomeo sita in Contrada Andreotta». I picciotti bruzi furono a loro volta ospiti per tre mesi dei Graviano in un villaggio turistico del palermitano dopo aver subito un agguato ad Arcavacata. Ma in riva al Crati vennero pure altri due “compari” d’Oltrestretto: Pino Marchese e Giovanni Drago, spietati sicari al servizio dei corleonesi. Il primo ha firmato decine di omicidi ed è il cognato di Leoluca Bagarella; l’altro è famoso per aver ammazzato a Bagheria, la sera del 23 novembre del 1989 (proprio nel periodo in cui più frequenti erano le sue sortite a Cosenza) la madre, la zia e la sorella del pentito Francesco Marino Mannoia, detto “il chimico” per la capacità che aveva di raffinare l’eroina. L’uomo doveva essere punito crudelmente perché aveva osato tradire Cosa nostra.

Lo stragismo di matrice siciliana non ha mai trovato spazio tra le cosche calabresi. Solo nel 1993, proprio dopo il pentimento dei fratelli Dario e Nicola Notargiacomo e di Roberto Pagano pure alle nostre latitudini vennero immaginate strategie terroristiche contro le Istituzioni. Ne parlò per primo l’ex boss Franco Pino, quello che nel ‘92 bocciò l’attacco allo Stato proposto dai siciliani nella riunione di Nicotera tenuta nel villaggio “Sayonara”. Racconta il padrino che, appresa la notizia della collaborazione dei tre “picciotti” con il pm antimafia di Catanzaro Stefano Tocci – definito dalla “gola profonda” una «persona inavvicinabile» – pensarono ad un attacco in grande stile contro rappresentanti istituzionali. Bisognava prendere seri provvedimenti per costringere lo Stato ad allentare la morsa. Se nel 1986 la collaborazione di Antonio De Rose era stata facilmente neutralizzata e depotenziata, questa volta i guai potevano esser seri. I clan pensarono, perciò, di colpire Luigi Carnevale, stretto collaboratore di Tocci. Doveva essere destinatario di una buona dose di esplosivo innescabile a distanza con dei telecomandi. Pino, già nel 1982, aveva fatto collocare ed esplodere un ordigno all’ingresso della questura (allora in via Guido Dorso). Nel frattempo, prima di colpire Carnevale, fu collocata una bomba davanti all’abitazione di un maresciallo della compagnia di Rogliano che aveva osato convincere dei commercianti a parlare delle estorsioni subite per anni dalle cosche. Quando, però, fu il momento di ordinare il “grande botto” contro il poliziotto, Franco Pino cambiò direzione scegliendo di “cantare”. E fece ritrovare ai carabinieri i telecomandi destinati a far saltare in aria il funzionario di polizia. All’allora pm della Dna, Emilio Ledonne, che l’interrogò disse: «L’esplosivo ed i telecomandi erano pronti, l’uomo incaricato di compiere la missione pure...». Un altro pentito, invece, ha successivamente svelato un altro progetto omicidiario eclatante ideato, quasi fosse una nemesi, proprio contro Pino. Il boss si era pentito e occorreva eliminarlo. «Dovevamo colpirlo» racconta Giuseppe Bonfiglio «mentre usciva dalla caserma dei carabinieri di Rogliano dove spesso si trovava per rendere dichiarazioni. Avevamo sperimentato che accendendo a distanza, attraverso un telecomando comunemente usato per aprire i cancelli, una Fiat Uno a iniezione elettronica potevamo lanciarla senza guidatore, imbottita di esplosivo contro il boss e la sua scorta». L’attentato, per fortuna, non venne mai portato a compimento.

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