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Cosenza, quei privilegi dei boss e il martirio di Sergio Cosmai

Da Colle Triglio a via Popilia le celle sono state sempre permeabili ai favoritismi. Nel 2019 la Dda mise sott’accusa due agenti della penitenziaria

Sergio Cosmai (direttore di carcere)

C’è stato un tempo in cui i droni erano “umani” (spesso in divisa) telecomandati da promesse di denaro, favori o peggio ancora da minacce e ritorsioni. Le mura del carcere sono sempre state permeabili e boss, picciotti e sgherri – trovata la “chiave” giusta – potevano godere di privilegi e favoritismi.
C’è stato un tempo in cui – quando telefoni cellulari e smartphone erano ancora un’utopia – in carcere entravano non solo caviale champagne per i mammasantissima, ma anche droga e armi per la manovalanza criminale. Nel cosiddetto “Grand Hotel” di Colle Triglio, per esempio, succedeva di tutto e di più. Nel vecchio penitenziario, addirittura, le celle affacciavano sulla strada principale e i detenuti incontravano parenti, amici e sodali senza tante cerimonie: s’affacciavano e facevano conversazione.
In qualche caso entravano – si presume con la presunta complicità di agenti infedeli della penitenziaria – anche armi. Nel carcere di Colle Triglio le rivoltelle comparvero in almeno due occasioni. Il primo nel 1971 durante un tentativo di evasione in cui due detenuti armati fecero fuoco e ferirono due agenti. Altri episodi di violenza, abbastanza gravi, si verificarono poi nel 1980 con l’uccisione di un detenuto e nel 1982 quando vi fu uno scontro armato tra clan rivali.
Poi col trasferimento del carcere in via Popilia e l’arrivo di Sergio Cosmai, le cose iniziarono a cambiare. Il nuovo direttore non solo aveva rispolverato le regole, ma le faceva anche rispettare con pedissequa e maniacale puntualità facendo piazza pulita dei privilegi. Circostanza che Cosmai pagò col martirio. Venne assassinato sulla strada che oggi porta il suo nome. Benché le maglie dei controlli da allora divennero sempre più strette, il carcere non fu mai impermeabile a pizzini, droga e telefonini. A maggio dello scorso anno, per esempio, sono stati condannati, in primo grado, a otto anni di carcere Luigi Frassanito, di 61 anni, e a sei Giovanni Porco di 57. I due agenti della polizia penitenziaria – che vanno intesi innocenti fino all’accertamento definitivo dei fatti – sono finiti nelle maglie di un’inchiesta della Dda di Catanzaro. Inchiesta, chiusa nel giugno del 2019, che riguardava proprio i favoritismi a boss e picciotti nel carcere “Sergio Cosmai”.
Nel carcere di via Popilia entrava e usciva di tutto. Secondo le indagini coordinate dall’allora Capo della Procura antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri e dal sostituto Camillo Falvo, Frassanito e Porco si sarebbero messi a disposizione degli esponenti dei clan egemoni Lanzino-Ruà-Patitucci, Bruni-zingari, Rango-Zingari e Perna. Dalle carte dell’inchiesta era emerso che i due agenti portavano fuori dalla mura i pizzini dei boss e, inoltre, introducevano nella casa circondariale droga e alcol.
Dalle carte delle indagini, poi, sarebbe emersa anche la gestione delle celle. Secondo i magistrati della Dda avrebbero favorito l’assegnazione delle celle più ambite. Celle, queste ultime, che erano quelle del secondo piano, dalle cui finestre era possibile dialogare con l’esterno e quindi con famigliari, amici e sodali.
Del “servizio di messaggeria privata”, secondo le carte dell’indagine, avrebbe usufruito anche Maurizio Rango. Una circostanza che si sarebbe verificata quando si trovava in carcere per l’omicidio Messinetti.

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