Il tempo s’è fermato. Trentacinque anni dopo, la vita di Isabella Internò rincrocia la storia tragica di Denis Bergamini. Accade nell’aula della Corte di assise di Cosenza, quando la presidente, Paola Lucente, legge il dispositivo di condanna: 16 anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e provvisionale risarcitoria di 100.000 euro in favore delle partiti civili.
L’imputata ascolta in silenzio, seduta in prima fila accanto ai suoi avvocati Rossana Cribari e Angelo Pugliese. I giudici l’hanno ritenuta colpevole di concorso in omicidio: con due complici, rimasti senza volto, avrebbe organizzato l’assassinio del centrocampista rossoblù, idolo della tifoseria cosentina. E per mascherare il delitto si sarebbe operata ad orchestrare una messinscena al fine di far apparire il decesso dell’atleta come un suicidio.
L’ipotesi accusatoria, che ha trovato riscontro in sentenza, è stata illustrata in requisitoria dal procuratore capo di Castrovillari, Alessandro D’Alessio e dal pm Luca Primicerio. Una tesi sostenuta a gran voce dai legali dei parenti della vittima, gli avvocati Fabio Anselmo, Silvia Galeone e Alessandra Pisa. Un impianto duramente contestato, al contrario, dai difensori Cribari e Pugliese. All’imputata sono state riconosciute le attenuanti generiche con l’esclusione delle aggravanti e questo spiega la misura della pena inferiore a quella di 23 anni invocata dai requirenti.
Prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, l’imputata aveva reso dichiarazioni spontanee: «Voglio solo dire» ha affermato «che sono innocente e non ho commesso niente. Lo giuro davanti a Dio. Dio è l’unico che non posso non avere al mio fianco.» Il palazzo di giustizia è stata assediato sin dal mattino da un nutrito gruppo di tifosi e la sede dibattimentale è rimasta affollata da giornalisti e curiosi sino a sera. La condannata ha lasciato gli uffici giudiziari senza rilasciare dichiarazioni.
La tesi del presunto suicidio
Isabella Internò è stata la fidanzata del centrocampista rossoblù trovato cadavere la sera del 18 novembre del 1989 lungo la Statale 106 ionica in territorio di Roseto Capo Spulico. È stata lei a trascorrere con il calciatore le ultime ore di vita. Lei ha raccontato agli inquirenti dell’epoca che Bergamini si era ucciso lanciandosi sotto un camion che sopravveniva condotto da un autista originario di Rosarno. E la versione resa dalla donna ha poi retto per anni sino alla seconda riapertura del caso da parte della procura di Castrovillari, all’epoca guidata da Eugenio Facciolla. Tante le perizie svolte a più riprese per far luce sull’accaduto: l’esame eseguito nel 2013 dal Ris di Messina dopo la prima riapertura delle indagini - che escludeva un trascinamento del cadavere da parte del camion che l’investì - cui seguì, nel 2017, su richiesta del patrono di parte civile, Fabio Anselmo, la riesumazione della salma dell’atleta e l’applicazione d’una nuova “ tecnica” sperimentale che prevedeva l’uso della glicoforina. La sostanza avrebbe consentito di accertare - a parere del legale - con probabile certezza scientifica se Bergamini era già morto quando venne sormontato dalle ruote del camion che l’investì. L’accertamento scientifico e medico-legale, disposto con un formale riavvio delle investigazioni, s’è poi rivelato determinante nell’evoluzione dell’inchiesta culminata nel rinvio a giudizio della odierna imputata. La pubblica accusa ha infatti sostenuto, sulla base degli accertamenti eseguiti, che Bergamini fu vittima di una asfissia meccanica e poi sdraiato sull’asfalto perchè venisse travolto dal mezzo pesante. L’omicidio venne attuato - secondo i Pm - attraverso un’azione di soffocamento compiuta con una sciarpa o una busta di plastica dai due esecutori materiali giunti sul posto a bordo di un’auto diversa da quella in cui si trovava la coppia. Il calciatore la sera in cui è morto lasciò il cinema di Rende in cui si trovava con i compagni di squadra per dirigersi a bordo della propria Maserati con la Internò verso l’Alto Ionio cosentino - e non si è mai capito per quale ragione - dove poi venne rinvenuto senza vita.
La causa del delitto
Il centrocampista e l’attuale imputata - all’epoca giovanissima - divisero per più di cinque mesi l’incubo di una non voluta gravidanza. La Internò, infatti, rimase incinta e decise, d’accordo con il fidanzato, di interrompere l’esperienza della maternità sottoponendosi a un aborto in una clinica di Londra. Gli investigatori sono risaliti alla delicatissima circostanza perchè al momento della morte Bergamini aveva in tasca un biglietto con indicato l’indirizzo e il numero di telefono della clinica inglese in cui l’interruzione della gravidanza venne eseguita. Non solo: la trasferta della coppia in Inghilterra trovò riscontro in un filmato amatoriale che la coppia girò proprio in riva al Tamigi e che i poliziotti hanno ritrovato. Di più. Le indagini hanno consentito, in questi anni, di individuare le tracce documentali del ricovero della ragazza fuori dal suolo patrio. Un ricovero attuato oltre la Manica, nel luglio del 1987, perchè all’epoca in Italia era vietato praticare l’aborto di un feto con età di sviluppo superiore ai tre mesi. La creatura che la Internò portava in grembo stava invece crescendo da ormai cinque mesi e mezzo. La pratica abortiva incrinò di fatto il rapporto tra il centrocampista e la ragazzina. Della gravidanza interrotta erano all’oscuro i genitori della giovane mancata mamma mentre ne erano a conoscenza i congiunti di Bergamini. La Procura ha ipotizzato che il movente del delitto sia legato proprio alla fine della gravidanza e alla mancata volontà del calciatore di sposare la donna. L’imputata si è sempre protestata innocente e tale dovrà essere considerata sino alla definizione del giudizio con sentenza passata in giudicato.
Le reazioni
«Finalmente la Corte ci ha dato ragione. Quando ho capito che la giustizia arrivava, la mia testa è andata a mio fratello, a mio padre e a mia madre che è ancora in vita ma che probabilmente non riuscirà a capire per la sua malattia». Così Donata Bergamini, sorella di Denis, ha commentato, trattenendo a stento le lacrime, la decisione dei giudici. «Ho pensato subito - ha aggiunto - ai miei figli che hanno finalmente smesso di portarsi dietro questa macchia. Gli ho sempre detto che nella giustizia bisogna avere fiducia che prima o poi la giustizia arriva. Ho provato felicità anche per i miei nipoti che non subiranno quello che hanno subito i miei figli».
«Cosa ho provato vedendo Internò? Niente non mi ha fatto nessun effetto perché quella persona lì per me era già in carcere prima» ha aggiunto. «L’entità della pena non mi interessa in questo momento - ha concluso la sorella di Denis - per me la cosa più importante era che quello che sia io che mio padre avevamo subito visto dall’inizio, quello che dicevamo era vero, che Denis era stato ucciso».
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