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Rossano, l'incontro di due studiosi sul Codice Purpureo diventa un romanzo

E’ forse nello spazio bianco, nella lacuna che va cercato tutto. La lacuna fra due parole uguali, du même au même, espressione usata in filologia per indicare l’errore di copiatura dell’amanuense che senza volerlo o per distrazione tralascia una parte del testo, o una parola collocata a breve distanza. È questo l’argomento della lectio del filologo Pietro Pontani che in Calabria, a Rossano, incontra Lea Levi, studiosa di paleografia, ad un convegno sul bellissimo Codex Purpureus Rossanensis.

Tra i due nasce una passione improvvisa, travolgente, ma poi si perdono di vista, solo pochi indizi negli anni per l’uno e per l’altra riguardo i loro rispettivi studi. Ma poi, vent’anni dopo, tutto torna e la lontananza, l’assenza è diventata «un trascurabile spazio bianco, un insignificante salto du même au même, un passo in un vuoto che è come se non ci fosse mai stato, mai». Ma in quello spazio bianco va cercata l’essenza del testo, l’essenza della bella storia d’amore del romanzo di “La carezza. Una storia perfetta” (La nave di Teseo) di Elena Loewental, studiosa di cultura ebraica, traduttrice di importanti autori, scrittrice, giornalista.

Una studiosa di paleografia e un filologo. E una storia intima e fortissima. Come è nato questo romanzo?

«Potrà sembrare paradossale ma tutto parte da quel manoscritto, dal Codex Purpureus Rossanensis, un manoscritto che ho visto e che mi ha interessato moltissimo ovviamente. Tutto parte da quello che in filologia si chiama il salto du même au même. Insomma, una lacuna che si verifica nella trasmissione dei testi, “la corruttela perfetta che tace e dice, chiude e apre il testo, stabilisce un’intoccabile simmetria fra quel che c’è e quel che manca”. Ebbene da lì è nata l’idea di una lacuna nella vita dei due personaggi, Lea e Pietro. Ecco, volevo scrivere di quel salto, di quella pagina bianca nella vita dei due, ma con tanta storia e tanti sentimenti dentro».

L’abbandono, la perdita, il dolore e l’assenza sono spesso i temi dei suoi romanzi, però forse a dominare è l’assenza, «una pietra leggera a rendere più acuta la presenza», come recitano i versi di Bertolucci posti in esergo al suo romanzo.

«Sì, è vero, l’assenza, la lacuna, ma c’è anche il fatto che l’assenza viene colmata nella distanza. Lea e Pietro scoprono di essersi mancati a vicenda e lo scoprono insieme. Quando sono insieme è come se il mondo non esistesse. Infatti, è una storia d’amore perfetta, incentrata sul desiderio di amare, “dell’io sono te e tu sei me e io sono fuori da me ma dentro di te”».

Lei, infatti guarda con la sua lente narrativa esclusivamente alla storia tra Lea e Pietro. Gli altri nella narrazione sono solo comparse, benché necessari alla trama. Perché?

«Io avevo necessità di scrivere questo libro. E come tutti i miei libri è comunque un intreccio di esperienza e di sentimento. Scrivendo poi, la scrittura stessa diventa esperienza di vita. Certo, avvicino la lente a Lea e a Pietro perché vivono una storia clandestina, ma non fine a se stessa. Come dice Lea, è vero che sanno poco l’uno dell’altra, dentro lo spazio bianco dell’assenza, della lontananza, ma quel che sanno di loro lo sanno soltanto loro, sia nel prima che nel dopo. È un amore sottratto al tempo della vita, ma vissuto in una dimensione parallela, mentre tutto il resto sta fuori».

Il sesso, il corpo, temi che lei tratta con forza ma nello stesso tempo con delicatezza. Anzi, proprio dal sesso inizia il suo romanzo. Un atto di coraggio questo inizio spiazzante che si stempera in un’intensa storia d’amore?

«Sì, è un attacco forte. A parte il fatto che per la prima volta volevo raccontare una storia d’amore completa, nella sua complessità, e quindi anche di forte attrazione fisica e mentale, quel “darsi, così. Come non mai”, e volevo in tal modo dare il segno della perfezione di questa storia, ricordo che vengo da una tradizione come quella ebraica, in cui il corpo sta sullo stesso piano dello spirito, e quel che riguarda il corpo riguarda anche lo spirito. Spesso ragioniamo per schemi, e dunque può sembrare “strano” che due seri studiosi come Lea e Pietro abbiano un approccio non convenzionale, un’attrazione fisica non razionale, improvvisa e fortissima».

Rossano, Matera, Pantelleria, questo è anche un viaggio nel Sud dell’Italia, tra luoghi dell’anima ricostruiti molto minuziosamente.

«Sì, nel Sud esteriore e nel Sud interiore. Luoghi che per me sono stati una grandissima scoperta. Luoghi che mi prendono, con un senso di appartenenza. Come pensa Lea nel romanzo, non un Sud da cartolina, ma uno sradicamento che si rinnova ogni volta. Così è per me. Pensi che in Lucania io ho “scoperto” Carlo Levi, che abitava a Torino, a 150 metri dal posto in cui abito io. Quella di Carlo Levi per la Lucania è una storia d’amore e di attrazione fisica, appunto. Una volta che dovette allontanarsi dal confino di Aliano per un funerale cui doveva partecipare, andando via da lì sentiva già nostalgia. E la nostalgia è imprescindibile dall’amore».

Non a caso Lea si chiama Levi. E non a caso Matera è il luogo dell’anima di Lea e Pietro.

«Credo fortemente in questa connessione tra luoghi e anime. Credo nel migrare millenario in quel Sud dove ho passato tante ore, con quella nostalgia che fa sentire migrante. E poi Matera è l’unico luogo che fa pensare a Gerusalemme, sono sovrapponibili, con la stessa luce, con la pietra che non è la stessa dal punto di vista geologico, ma che restituisce e moltiplica la luce, nella nostalgia l’una dell’altra. Bisognerebbe leggere e rileggere Carlo Levi, come dice Pietro a Lea. E poi c’è Pantelleria, che non è nominata ma si riconosce. Un mio luogo dell’anima, dove ho casa».

Quanto i suoi studi hanno influito su questa storia?

«Ho studiato all’università paleografia e critica del testo, discipline che mi dispiace aver lasciato. E proprio la paleografia è uno dei miei più bei ricordi. Dunque, anche in questo caso questione di nostalgia».

E quanto la sua attività di traduttrice di autori come Oz, Grossman, Nevo, Shalev, tra gli altri, ha influito sulla sua narrativa?

«Tradurre e scrivere mi piaceva sin dai tempi del liceo quando mi trovavo davanti al testo greco o latino o davanti alla pagina bianca, un incubo per i miei compagni ma per me un piacere. Sì, ho imparato moltissimo da loro sia per l’ebraico che per l’italiano. Il mio stile si è affinato ed è maturato grazie alla traduzione. Ma la traduzione non ha nulla a che vedere con la lettura e la scrittura. È un corpo a corpo con il testo, in cui il traduttore ha il privilegio di stare nell’ombra, di fronte ai grandi della letteratura. Tradurre è una questione di equilibrio tra la discrezione da un lato e dall’altro la necessità di immedesimarsi nell’autore e di prestargli la possibilità che la mia lingua mi offre».

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