«Le cose che abbiamo perduto le abbiamo perdute per sempre, anche gli oggetti, anche l’orologio che ritrovi dietro il cassetto dopo un mese non è lo stesso orologio di un mese fa. Perché le cose di prima sono finite e se sono finite non esistono più». Scrive così l’io narrante di «Le cose di prima» (Rubbettino) di Giuseppe Aloe, una storia spiazzante che può essere un inganno dell’io o rimanere confinata nella dimensione onirica che torna di frequente nelle storie dello scrittore cosentino, qui al suo settimo romanzo (e finalista allo Strega 2012 con «La logica del desiderio»).
E comunque che le cose accadano o no, non si esce dalla finzione, è il tempo stesso a disseminare nelle nostre vite una buona quantità di finzione e, a ben pensarci, tra finzione narrativa e realtà non c’è poi così grande differenza... Quel che ha perduto Martin, professore di filosofia che vive da solo in una casa antica «dai muri potenti» nella parte vecchia d’una «remota città piena di strade che non portano da nessuna parte» (la parte nuova rimane oltre il ponte che le divide), è un esatto periodo della sua adolescenza, sicura nella «splendida invariabilità» della sua piccola vita tra solitudine e quotidianità scolastica e domestica. Ma da un giorno all’altro quell’età così balorda viene interrotta da fatti nuovi, l’abitudine portata via, le cose dell’adolescenza rubate. E il tredicenne Martin, come racconta il Martin adulto alla solare collega Annette, in quel furto subìto si ritrova smarrito come in un labirinto, lo stesso delle strade che percorreva per tornare a casa: «Un labirinto di vie e di confusione che solo con grandi sforzi riesci a superare e a tornare a casa seguendo altre strade, altre procedure, intuizioni di risulta».
E anche il racconto di Martin è labirintico perché «siamo abituati ai nostri dedali e anche i nostri pensieri sono labirintici». Quel che rievoca scrivendo, mentre contemporaneamente lo legge Annette, è una tragedia famigliare che va oltre l’immaginazione, il male che irrompe senza logica e senza apparenti avvisaglie. Poi gli anni sono passati, e le cose «hanno lasciato la loro ombra sui letti e nell’aria delle stanze, ma sono finite, hanno preso come una grande onda che le ha portate dove non c’è più cielo».
In compagnia di Martin rimane Janelle, una mantide religiosa, animale-totem del destino, un «miracolo inquieto» a guardia della casa, che sembra aspettare come lui «un evento, un cataclisma, un posto dove immaginare una nuova storia, una storia senza carnefici, senza paragoni, qualcosa che mi appartiene perché non l’ho vissuto, ma che miracolosamente conosco».
Però anche lei sparisce per sempre e forse quel che Martin aspetta è un «altro me, un’altra persona», mentre s’impone con la sua vivacità Annette, ormai arrivata alla fine della lettura di questo racconto.
Una scrittura di citazioni colte quella di Aloe, con atmosfere sospese e fantasmi che migrano da un libro all’altro, una scrittura abitata da personaggi inquieti, scissi tra terra dei morti e terra dei vivi, segnati da incertezze e ombre: tutto esaltato dalla asciutta e cruda geometria narrativa dei brevi capitoli, tutti della stessa lunghezza condensata in poco più di due pagine. Una riflessione profonda, squisitamente letteraria, sulla sostanza impalpabile di cui siamo fatti. Tempo, e parole.
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