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"Don Nicola" Acri: le ritrattazioni, i processi e le clamorose assoluzioni del boss pentito

Il boss pentito di Rossano dovrà spiegare molte cose al procuratore Nicola Gratteri. E non solo i retroscena, le causali e l'esecuzione di tanti delitti di 'ndrangheta compiuti nella Sibaritide, ma pure il giro d'affari messo in piedi in Calabria

“Don Nicola” le ritrattazioni, i processi e le clamorose assoluzioni. Il boss pentito di Rossano dovrà spiegare molte cose al procuratore Nicola Gratteri. E non solo i retroscena, le causali e l'esecuzione di tanti delitti di 'ndrangheta compiuti nella Sibaritide, ma pure il giro d'affari messo in piedi in Calabria come in Settentrione, le “amicizie” pericolose coltivate a sud come a nord, i legami con la cosca guidata dal padrino di Cassano, Franco Abbruzzese, detto “Dentuizzo”, ma dovrà soprattutto chiarire come riuscì ad uscire indenne da alcuni processi, La Cassazione, per esempio, nel gennaio 2013 lo assolse definitivamente, per non aver commesso il fatto, dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio dell'imprenditore rossanese, Luciano Converso. E con lui uscirono di scena il fratello, Gennaro, suo braccio destro, e il loro amico Massimo Esposito.

I tre erano finiti in manette dopo le "cantate" d'una donna, la stessa che quella notte del 12 gennaio del 2007, si trovava in compagnia della vittima. La teste chiave, dopo aver accusato Gennarino Acri ed Esposito come presunti esecutori materiali del delitto, ritrattò tuttavia il suo racconto in aula. Un colpo di scena che lasciò tutti di stucco. Tra l'altro, la donna aveva confidato al fratello prete d'aver visto in faccia i killer, ma lo stesso sacerdote, dopo avere confermato la circostanza in fase di indagini preliminari, fece pure lui una clamorosa inversione di marcia. In primo grado, i tre imputati vennero condannati all'ergastolo dalla Corte d'assise di Cosenza ma la sentenza, venuti meno i principali testi di accusa, venne annullata in secondo grado e l'assoluzione infine confermata dalla Corte di legittimità.

Qualcuno convinse la donna e il fratello prete a ritrattare? Nessuno, fino al momento, è stato in grado di dirlo. Ma non è solo questa la vicenda giudiziaria che vedeva imputato Nicola Acri che si concluse con un'altra clamorosa assoluzione. Il padrino, ora “dichiarante”, fu incriminato dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro con Franco Abbruzzese, capo della criminalità nomade di Cassano, con l'ex capobastone pentito di Castrovillari, Antonio Di Dieco e il killer castrovillarese, Tommaso Scaglione, pure lui poi collaboratore, ed altri crotonesi per la strage compiuta a Strongoli il 26 febbraio del 2000.

Nell'occasione persero la vita Salvatore Valente, Massimiliano Greco, Otello Giarratano e il pensionato Ferdinando Chiarotti, che era seduto su una panchina. Come esecutori materiali vennero indicati lo strongolese Salvatore Giglio, Francesco Abbruzzese, Tommaso Scaglione e Nicola Acri. Alla fine, nel processo di appello, venne condannato solo Scaglione a 16 anni di reclusione e tutti gli altri assolti.

L'impianto accusatorio basato sulle dichiarazioni originarie di Di Dieco e Scaglione non resse, per via di una serie di palesi imprecisioni rilevate nei racconti dei collaboratori. E avanti e indietro tra Cassazione e Corte di appello di Catanzaro ha fatto pure il processo che vede imputati Acri e Abbruzese per la uccisione di Giuseppe Cristaldi e Biagio Nucerito, avvenuto a Cassano nel gennaio del 1999. Anche in questo caso, le originarie rivelazioni dei pentiti dapprima apparentemente univoche hanno poi fatto registrare nei processi di primo grado e appello significative “difformità”.

Nicola Acri viene descritto come un uomo d’azione, glaciale al pari del suo soprannome – “occhi di ghiaccio” – con le armi in mano. Ma anche come un imprenditore mafioso capace di imporre mercanzia e servizi di ogni genere nel suo territorio di competenza: miscele di caffè, prodotti da forno, vigilanza. Un’attività capillare e diversificata, con sortite addirittura nel calcio dilettantistico: una società sportiva rossanese oggi fallita – sostiene la magistratura antimafia – sarebbe stata utilizzata come paravento per coprire la reale provenienza del denaro ricavato da usura ed estorsioni. Ai magistrati di Catanzaro avrà tante cose da raccontare.

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