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Cassano, Cocò cambia la storia della Chiesa

La barbara uccisione del bambino di tre anni conduce alla “scomunica” degli ‘ndranghetisti. Processioni e funerali saranno controllati per evitare infiltrazioni

Un delitto che ha cambiato la storia della Chiesa. La morte ad appena tre anni di “Cocò” Campolongo, avvenuta nel gennaio del 2014, indusse Papa Francesco a venire in Calabria. Il bimbo fu trovato carbonizzato insieme con il nonno, Giuseppe Iannicelli e una donna marocchina Betty Taoussa. Il Pontefice, dopo aver visto la mamma del piccolo all’epoca detenuta a Castrovillari, incontrò i fedeli - più di 250.000 persone provenienti da ogni angolo della regione - a Sibari. Davanti a quella folla sterminata, cambiando l’originario discorso che aveva preparato, disse: «Quando non si adora il Signore si diventa adoratori del male, come lo sono coloro che vivono di malaffare e di violenza e la vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».

La reazione

Nessun vicario di Cristo aveva mai pronunciato parole tanto forti. La reazione alla «scomunica» lanciata a Sibari contro padrini e picciotti, diede subito una maggiore consapevolezza collettiva del problema e provocò l’adozione di tutta una serie di documenti e regolamenti da parte delle diocesi per impedire qualsivoglia tipo d’infiltrazione criminale nelle parrocchie e nella manifestazioni di pietà popolare. Nel gennaio del 2017, Papa Francesco riprese poi il filo di quel discorso durante l’incontro con i magistrati della Direzione nazionale antimafia. Ai pubblici ministeri disse: «Dio tocchi il cuore degli uomini e delle donne delle diverse mafie, affinché si fermino, smettano di fare il male, si convertano e cambino vita. Il denaro degli affari sporchi e dei delitti mafiosi è denaro insanguinato e produce un potere iniquo». E aggiunse: «la mafia è espressione di una cultura di morte, è da osteggiare e da combattere e si oppone al Vangelo». Bergoglio sembrò, ancora una volta, legarsi all’anatema di Giovanni Paolo II che, il 9 maggio del 1993, ad Agrigento, puntando l’indice verso la folla, pronunciò una frase destinata a restare scolpita nella storia della Chiesa: «Mafiosi convertitevi perché verrà il giudizio di Dio!». Il Pontefice di origine argentina volle, però, davanti ai togati della Dna, aggiungere qualcosa in più rispetto a quanto affermato tre anni prima a Cassano. E, nel prosieguo del discorso, indicò le cause dell’espansione e del consenso sociale ottenuti dalle mafie italiane. «Camorra mafia e ’ndrangheta, sfruttando carenze economiche, sociali e politiche, trovano un terreno fertile per realizzare i loro deplorevoli progetti». Il messaggio apparve subito chiaro a tutti: la nostra società favorisce con i suoi limiti e disservizi la proliferazione della criminalità organizzata. Il dato è inoppugnabile.

I cambiamenti

Ma cosa è accaduto in Calabria dopo la “scomunica” pronunciata nella Piana di Sibari? Il sistema d’interlocuzione tra i “pastori” del Signore e gli “uomini di rispetto” è cambiato radicalmente. Da quel giorno in avanti i rapporti non sono più stati equivoci, né all’insegna d’una sottile complicità o acquiscienza da parte di preti e parroci, forse anche in ragione di lucrose donazioni fatte dai padrini alle comunità parrocchiali. E la chiesa calabrese con la sua Conferenza Episcopale, diverrà da quel giugno del 2014, promotrice di precisi documenti che disciplinerranno le manifestazioni di pietà popolare. C’è sempre stata, tuttavia, una Chiesa, in Calabria, che ha urlato tutto il suo sdegno contro le mafie. Una Chiesa che per decenni si è opposta alle pratiche della subcultura criminale. E la circostanza non è nota come meriterebbe d’esserlo. Basta leggere la “Lettera pastorale per la Quaresima” del 1916 dove, in embrione ma con chiarezza, si pongono le basi per una purificazione della pietà popolare. Già allora si individuavano abusi e la debolezza nell’azione di evangelizzazione e si chiedeva di ricentrare l’azione pastorale sull’annuncio della Parola e sulla celebrazione dei Sacramenti. Fra i punti deboli venivano indicati: le processioni, il ruolo dei padrini, la scarsa formazione del clero del tempo e dei fedeli. Debolezze che i vescovi individueranno anche nei documenti successivi nei quali, gradualmente, ma sempre con più chiarezza, prenderanno pubblicamente le distanze soprattutto da ciò che è connotato come fenomeno di tipo mafioso e criminale o come tentativo di infiltrazione. Nei testi successivi c’è la condanna senza appello della mafia definita «piaga della società» (1975); oppure l’«antivangelo» (2014) fino ad arrivare ad affermare che la «’ndrangheta nulla ha a che fare con la Chiesa di Cristo» (2015). Esiste poi una Lettera collettiva dei vescovi meridionali sui problemi del Mezzogiorno (1948) voluta dall’arcivescovo di Reggio, Antonio Lanza, che è un documento di enorme rilievo storico. Fu sottoscritta da 18 arcivescovi e 55 vescovi e non lasciava margini di manovra a quanti utilizzavano strumentalmente le feste, i riti, i simboli cattolici. D’altronde, monsignor Lanza fu il presule che sottrasse alla “mafia dei pescatori” il predominio fino ad allora indiscusso del trasporto del quadro della Madonna dell’Eremo nella città dello Stretto. Quando Lanza intervenne, i pescatori rinunciarono a portare il Quadro e toccò ai giovani dell’Azione cattolica provvedere.

Sacerdoti straordinari

Ma la Chiesa calabrese vanta l’azione di sacerdoti straordinari come don Fortunato Provozza, parroco di Cannavò, che nel lontano 1930 testimoniò contro il boss della zona indicandolo quale autore di un omicidio; di don Italo Calabrò che, negli anni 80, bloccò le celebrazioni della festa patronale a Lazzaro (Reggio Calabria) perché era stato rapito un bambino. «Nel coraggio del suo pastore – gridò don Italo – la gente ritroverà il suo coraggio». La Chiesa calabrese consegna alla storia anche la vita spenta dalle pallottole di due sacerdoti: don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara, uccisi nel 1860 a Reggio perché avevano denunciato gli autori di un feroce delitto. E quelle di don Giuseppe Giovinazzo, assassinato a Polsi nel 1989 perché aveva tentato di ottenere la liberazione di Cesare Casella, rapito dall’anonima sequestri calabrese; e del povero don Gennaro Amato trucidato per ragioni rimaste oscure a Caulonia, nel 1945, durante la sanguinosa pagina della “Repubblica rossa”. .

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